Il processo di Mariam si era tenuto la settimana prima. Non c'era stata pubblica udienza, né avvocato difensore, né possibilità di controinterrogare i testimoni, né di fare appello. L'intera procedura era durata meno di un quarto d'ora. Dei tre giudici quello nel mezzo era il leader. Era sorprendentemente scarno, con la pelle gialla, coriacea, e una barba rossa ricciuta. Aveva un collo così sottile che sembrava non poter reggere il grosso turbante avvolto attorno alla testa con intricati viluppi.
«Confessi, hamshira?» - le aveva chiesto di nuovo con voce stanca.
«Sì» - aveva risposto Mariam.
L'uomo aveva annuito. O forse no. Era difficile a dirsi. Quando parlava, nelle sue parole c'era un non so che di scaltro e tenero allo stesso tempo. Aveva un sorriso paziente. Non la guardava con disprezzo. Non le si rivolgeva con arroganza accusatoria ma con un sommesso tono di scusa.
«Capisci fino in fondo quello che stai dicendo?» - le aveva chiesto il talebano dalla faccia ossuta alla destra del giudice. Era il più giovane dei tre. Parlava in fretta, con una sicurezza arrogante ed enfatica.
«Sì, capisco» - aveva detto Mariam.
«Dio ci ha fatto in modo diverso» - aveva spiegato il giovane - «voi donne e noi uomini. Il vostro cervello è diverso. Voi non siete in grado di pensare come noi. Medici occidentali l’hanno dimostrato scientificamente. Ecco perché richiediamo solo un testimone maschio ma due testimoni femmine».
«Confesso ciò che ho fatto, fratello» - aveva ripetuto Mariam - «ma se non l’avessi fatto lui l’avrebbe uccisa. La stava strangolando».
«Questo lo dici tu. Ma le donne giurano sempre su qualsiasi cosa».
«E’la verità».
«Hai dei testimoni oltre alla tua ambagh?».
«No» - aveva risposto Mariam.
«Bene, allora». Aveva sollevato le mani in aria con un risolino sarcastico.
Poi aveva parlato il talebano dall'aria sofferente. «Non mi spaventa lasciare questa vita che il mio unico figlio ha lasciato cinque anni fa, questa vita che ci impone di sopportare dolore dopo dolore anche quando abbiamo superato ogni soglia di sopportazione. No. Penso che, quando verrà il momento, prenderò congedo di buon grado. Ciò che mi spaventa, hamshira, è il giorno in cui Dio mi convocherà e mi chiederà: 'Perché non hai obbedito alle mie leggi?'. Come lo spiegherò a Lui, hamshira? Come potrò difendermi dall'accusa di non aver seguito i suoi comandamenti? Tutto ciò che possiamo fare, tutto ciò che ciascuno di noi può fare nel tempo che ci è concesso, è attenersi alle leggi che Lui ci ha dato».
Si era sistemato, sollevandosi, sul cuscino, il viso contratto in una smorfia di dolore.
«Ti credo quando dici che tuo marito aveva un brutto carattere» - aveva ripreso fissando Mariam da dietro gli occhiali, con uno sguardo severo e compassionevole allo stesso tempo - «ma non posso che sentirmi turbato dal tuo gesto, hamshira. Sono stanco e sto per morire ma voglio essere misericordioso. Voglio perdonarti. Ma quando Dio mi chiamerà e mi dirà: 'Non spettava a te perdonare, Mullah', che cosa gli risponderò io?».
I suoi compagni avevano annuito, guardandolo con ammirazione.
«Qualcosa mi dice che tu non sei una donna malvagia, hamshira. Ma devi pagare per ciò che hai fatto. Affermo che è mio dovere mandarti dove presto ti raggiungerò io stesso. Capisci, hamshira?».
Mariam aveva chinato lo sguardo sulle mani, dicendo che capiva.
«Che Allah ti perdoni».
Mariam rimase in prigione dieci giorni. Sedeva vicino alla finestra della cella e guardava le carcerate nel cortile. Quando soffiavano i venti estivi, seguiva con lo sguardo i pezzetti di carta che, trasportati dalle correnti, turbinavano in mulinelli impazziti. Guardava il vento che sollevava la polvere, convogliandola in violente spirali che mettevano sottosopra il cortile.
L'ultimo giorno che Mariam trascorse a Walayat, Naghma le offrì un mandarino. Glielo mise in mano e le chiuse le dita sopra il frutto. Poi scoppiò in lacrime. «Sei la migliore amica che abbia mai avuto» - disse. Mariam passò il resto della giornata accanto alla finestra con le sbarre, guardando le carcerate nel cortile. Una di loro stava cucinando e una folata di fumo e di aria calda profumata di cumino fluttuò attraverso la finestra. Due bambine cantavano una filastrocca che Mariam ricordava dall'infanzia.
Mentre veniva condotta allo stadio Ghazi, Mariam sobbalzava nel cassone del camioncino che sterzava all'improvviso per evitare le buche, mentre le ruote facevano schizzare sassi in tutte le direzioni. Quegli scossoni le facevano male all'osso sacro. Di fronte a lei sedeva un giovane talebano armato, che la osservava. Mariam si chiedeva se sarebbe toccato a lui, a quel giovane gentile, con gli occhi infossati e il viso leggermente appuntito.
«Hai fame, madre?» - le chiese.
Mariam scosse il capo.
«Ho un biscotto. E’ buono. Te lo dò se hai fame. Mi fa piacere».
«No. Tashakor, fratello».
Annuì e lo guardò con benevolenza.
«Hai paura?».
Un nodo le strinse la gola. Con voce tremante Mariam gli disse la verità. «Sì. Ho molta paura».
Per la prima volta, quel giorno, Mariam versò qualche lacrima.
Migliaia di occhi si posarono su di lei. Sulle gradinate gremite, la folla allungava il collo per vedere meglio. Alcuni pregavano. Altri facevano schioccare la lingua. Quando Mariam scese dal camioncino, un lungo mormorio trascorse per lo stadio. A Mariam parve di vedere gli spettatori scuotere la testa quando l'altoparlante annunciò il crimine per cui veniva condannata. Ma non alzò gli occhi per verificare se la scuotevano con disapprovazione o con misercordia, con biasimo o con clemenza. Mariam non volle vedere nulla.
Nel corso della mattinata era stata presa dal timore di rendersi ridicola, di mostrarsi lacrimevole e implorante. Aveva temuto che avrebbe gridato o vomitato o che, addirittura, si sarebbe bagnata; che negli ultimi momenti sarebbe stata tradita da un istinto animale di sopravvivenza o dalla misera del corpo. Ma, quando la fecero scendere dal camioncino, le sue gambe non cedettero. Le sue braccia non frustarono l'aria. Non dovettero trascinarla.
Si avvicinò un uomo armato che le ordinò di andare verso il palo sud della porta. Mariam sentiva che la folla si eccitava pregustando lo spettacolo. Non alzò lo sguardo. Tenne gli occhi fissi a terra, sulla propria ombra, e sull'ombra del boia che seguiva la sua.
Mariam sapeva che la vita non era stata buona con lei, anche se le aveva concesso alcuni momenti di bellezza. Ma mentre percorreva gli ultimi venti passi, non poté fare a meno di desiderare di vivere ancora. La addolorava non veder crescere Aziza, non vedere la bella donna che un giorno sarebbe diventata, non poterle dipingere le mani di henna e lanciare dolci di noqul al suo matrimonio. Non avrebbe mai giocato con i figli di Aziza. Le sarebbe piaciuto così tanto diventare vecchia e giocare con i figli di Aziza.
Quando fu vicino al palo della porta, l'uomo dietro di lei le ordinò di fermarsi. Mariam obbedì. Attraverso la griglia del burqa vide l'ombra delle braccia dell'uomo alzare l'ombra del suo kalashnikov.
Questi furono i desideri di Mariam in quei suoi ultimi momenti. Tuttavia, quando chiuse gli occhi, non fu invasa dal rimpianto ma piuttosto da una sensazione di grande pace. Pensò al suo ingresso in questo paese, figlia harami di una povera ragazza di paese, una cosa indesiderata, un malaugurato, increscioso incidente, un'erbaccia. Eppure lo lasciava dopo essere stata un'amica, una compagna, una donna che si era presa cura degli altri. Una madre. Una persona di valore, finalmente.
«Inginocchiati, hamshira. E guarda a terra».
Per l'ultima volta, Mariam fece come le veniva ordinato.
(Tratto da: 'Mille splendidi soli' di Hosseini Khaled)
(ilaria antoniani)
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