(una pagina un fotogramma una scena)

(una pagina un fotogramma una frase una parola un uomo una donna un bambino una scena un istante un ricordo)

lunedì 30 maggio 2011

"In nome della madre" di Erri De Luca



Le donne del nostro popolo si coprono per non esporsi e perdere il bianco segreto della pelle. A me piace invece il segno del sole sul collo dei braccianti, sul dorso delle mani. In queste albe salgo a riceverlo, così il bambino impara la luce, non si spaventerà quando uscirà all'aperto. Gli piace già, sta a pancia in su come i cuccioli. 

Gli racconto: 

"Più del giorno ti stupirà la notte. E' un grande grembo stracarico di luci. Nelle sere d'estate qualcuna si stacca e viene vicino, fischiando. In mezzo a loro passa una via bianca, un siero di latte, quando lo vedrai vorrai succhiarlo. Pensa che io sono una di quelle luci e intorno a me c'è un ammasso di altre. Così è la notte, una folla di madri illuminate, che si chiamano stelle: di tutte loro, solo io la tua. A guardarle fanno spalancare gli occhi e allargare il respiro. Ma tu non sai ancora cosa è, il respiro. E' questo su e giù del petto che ti dondola"

(Erri De Luca "In nome della madre")

(ilaria antoniani)

domenica 29 maggio 2011

"L'amore" di Gibran

Quando l'amore vi chiama, seguitelo
anche se le sue vie sono dure e scoscese
e quando le sue ali vi avvolgeranno, affidatevi a lui.
Anche se la sua lama, nascosta tra le piume vi può ferire.
E quando vi parla, abbiate fede in lui.


L'amore non da nulla fuorché se stesso e non attinge che da se stesso.
L'amore non possiede né vorrebbe essere posseduto;
poiché l'amore basta all'amore.

Non crediate di guidare l'amore, perché se vi ritiene degni è lui che vi guida.
L'amore non vuole che compiersi.


Ma se amate e se è inevitabile che abbiate desideri,
i vostri desideri hanno da essere questi:
dissolversi e imitare lo scorrere del ruscello che canta la sua melodia nella notte.
Conoscere la pena di troppa tenerezza.
Essere trafitti dalla vostra stessa comprensione d'amore,
e sanguinare condiscendenti e gioiosi.

Destarsi all'alba con cuore alato e rendere grazie per un altro giorno d'amore;
Riposare nell'ora del meriggio e meditare sull'estasi d'amore;
grati, rincasare la sera;
e addormentarsi con una preghiera in cuore per l'amato
e un canto di lode sulle labbra.


(ilaria antoniani)

"Ipazia - Vita e sogni di una scienziata del IV secolo"

La voce si spense in un sussurro, la piccola folla di allievi - dispersa nelle ombre della grande sala, rischiarata a stento da poche lucerne - era silenziosa. Ella si mosse, con passo leggero si avvicinò a lui, egli sentì il profumo del suo corpo e fu preso dalla grazia e dalla forza. La guardò e non aveva domande ma lei rispose e così parlò:



"Non volgerti indietro mio compagno di viaggio, mira sempre avanti. Non lasciarti prendere dal dolore per un ritorno impossibile, molto della tua vita è passato ma molto ti rimane, le tue possibilità sono ancora numerose come le stelle del cielo. Il tempo non è un artefice implacabile della nostra vita, il tempo può essere plasmato, rallentato o addirittura fermato e mentre gli altri uomini rimangono immobili e dormono, tu puoi correre e diventare un creatore. Creatore di nuovi uomini e donne e non guardiano di greggi.

Io so che è tuo desiderio conoscere, investigare la realtà, per cambiare la tua vita e il mondo che ti circonda. Come ben tu sai, la mente ed il corpo, per quanto ben addestrati possano essere, non sono in grado di apprendere in modo totale tutto quello che viene prodotto nei vari campi del sapere. 

Devi correre ma ora è il momento di fermarti ed attendere. Nel tuo cuore e nella tua mente esiste un linguaggio di sogni e fantasia. Ma devi parlare, devi dire tuttora ciò che senti entro te stesso, non avere mai paura".


Il silenzio avvolse il vasto ambiente, il silenzio era Ipazia, il silenzio crebbe sino alla sommità dell'alta cupola e traboccò dall'immenso portone sul maestoso porticato esterno e sulla piazza vuota. Un giovane allievo si avvicinò con una piccola lucerna accesa, si fermò di fronte ad Ipazia e mosse la lampada in circolo più volte di fronte alla persona di lei, con la fiammella che vibrava in quell'insolito movimento. Il silenzio era assoluto, solido come i marmi che assediavano da ogni lato la visione magnifica di un'altra realtà. Ipazia si voltò, si diresse verso l'uscita del tempio, varcò la soglia, superò le possenti colonne in pietra egizia e si dissolse nella notte di un'antica città.

(Ipazia - Vita e sogni di una scienziata del IV secolo)



(ilaria antoniani)

giovedì 26 maggio 2011

Marilyn



Trentacinque anni vissuti con un corpo estraneo
trentacinque anni
con i capelli tinti
trentacinque anni
con un fantoccio.
Ma io non sono Marilyn
io sono Norma Jean Baker
perché la mia anima
vi fa orrore
come gli occhi delle rane
sull' orlo dei fossi?


(ilaria antoniani)

mercoledì 25 maggio 2011

Bobby


(ilaria antoniani)

Il silenzio della notte

« Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.
Mai dimenticherò quel fumo.
Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.
Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede.
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l'eternità il desiderio di vivere.
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto.
Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai. »



(ilaria antoniani)

Ipazia

"Quanto diverso sarebbe il nostro mondo se non fossero stati messi a tacere tanti spiriti liberi, come Ipazia?"

"Noi siamo dei piccoli mondi, forse gli unici capaci di scavare nella nostra natura, nella nostra identità. Siamo dei piccoli soli che studiano e investigano sul come e sul perchè bruciano ed emettono luce. Noi tutti dobbiamo molto a tutti gli uomini di scienza che ci hanno preceduto. Siamo in pochi, è vero. Il resto del mondo in questo momento sta facendo la guerra, sta lavorando, si sta riproducendo, sta viaggiando, sta uccidendo, sta amando, sta soffrendo ed esultando. E questo da migliaia di anni. Il perchè, poi, solo pochissime creature si dedicano allo studio e all'indagine, non lo possiamo sapere. Ma una cosa è certa: il nostro intuito ci spinge a comprendere la realtà. E' una fiamma che s'è accesa dentro di noi, nella nostra mente, nel più nobile dei nostri organi: qui c'è un motore tenuto in vita dal nostro desiderio di conoscenza. Questo motore, disse Protagora, è la misura di tutte le cose".


(ilaria antoniani)

Il giorno prima della felicità

(foto di Svevo Samperi)


" Sono cose che capitano il giorno prima."
"Il giorno prima di che?"
"Il giorno prima della felicità."
La sua voce attraversò le età. Iniziò infantile e finì adulta. Quando arrivò al tu, mi toccò il braccio. Seguii la sua mano che me lo sollevava fino alla sua spalla. L'altro braccio andò da solo al giro del suo fianco: la figura d'inizio d'un ballo.

"Ecco, così me l'ero immaginato. Tu scalavi il balcone per guardarmi, io scendevo le scale per venirti incontro. Tu avevi una segreta in una torre dove avremmo ballato. I desideri dei bambini danno ordini al futuro. il futuro è un domestico lento ma fedele."

Anna parlava senza un briciola di accento. Una lingua di libri. il suo fiato erano righe accarezzate. Si fermò come per andare a capo. Toccava a me.

"Ti ho aspettato fino a dimenticare cosa. Mi è rimasta un'attesa nei risvegli, saltando giù dal letto incontro al giorno. Apro la porta non per uscire ma per farlo entrare."

Appoggiai la tempia alla sua.

"Anna, è passata un'eternità."

"E' finita. Ora incomincia il tempo, che dura momenti."


 (ilaria antoniani)

martedì 24 maggio 2011

Lettera d'amore di Karl Valentin



Gennaio,33 Monaco 1925 e 1/2

Mio Caro Amato,
con mani piene di lacrime prendo la penna nelle mie mani e ti scrivo. Perchè da tanto tempo non mi hai più scritto, quando ancora l'altro giorno mi hai scritto che mi avresti scritto tu se non ti scrivevo io? Ieri mi ha scritto anche mio padre. Scrive di averti scritto. Ma tu non mi hai scritto una sola parola del fatto che lui ti ha scritto. Se tu mi avessi scritto almeno una sola parola sul fatto che mio padre ti ha scritto, io avrei scritto a mio padre che tu gli avresti voluto scrivere, ma che purtroppo non avevi avuto il tempo di scrivergli, altrimenti gli avresti scritto.
E' una cosa ben triste questo nostro scriverci, perchè tu non hai scritto in risposta ad uno solo degli scritti che io ti ho scritto. Sarebbe diverso se tu non sapessi scrivere, perchè allora io non ti scriverei affatto, tu invece sai scrivere però non scrivi lo stesso quando io ti scrivo. Chiudo il mio scritto con la speranza che ora finalmente mi scriverai, altrimenti questo sarà l'ultimo scritto che io ti ho scritto. Se tu però anche questa volta non mi dovessi scrivere, scrivimi almeno che non mi vuoi scrivere affatto, così se non altro saprò perchè non mi hai scritto.
Perdona la mia brutta scrittura, mi viene sempre il crampo dello scrivano quando scrivo.
A te naturalmente il crampo dello scrivano non verrà mai. Perchè tu non scrivi mai.
Saluti e baci
Tua N.N.

 (ilaria antoniani)

domenica 22 maggio 2011

Psicosi delle 4 e 48

-          Hai deciso cosa fare?



-          Mi faccio un’overdose, mi taglio le vene e poi mi impicco.



-          Tutto insieme?



-          Così non potranno dire che era una richiesta di aiuto.



-          Non funzionerà.



-          E invece sì.



-          Non funzionerà. Comincerai ad addormentarti dopo l’overdose e non avrai la forza di tagliarti le vene.



-          Starò in piedi su una sedia con un cappio intorno al collo.



-          Magari la paura può proteggerti, no?



-          Sì. E’ la paura che mi tiene lontana dalle rotaie dei treni. Sono stanca della vita e la mia mente vuole morire.



-          E’ una metafora, non la realtà.



-          E’ una similitudine.



-          Non è la realtà.



-          Non è una metafora, è una similitudine ma anche se fosse, la caratteristica tipica della metafora è che è reale.



-          Non è colpa tua.



-          LO SO.



-          Ma  sei tu che lo permetti.



-          Non c’è nessun farmaco sulla terra che può dare senso alla vita.



-          Sei tu che permetti questo stato di disperata assurdità.



-          Non sarei capace di pensare. Non sarei capace di lavorare.



-          Niente può ostacolare il tuo lavoro più di un suicidio.



Tagliatemi la lingua



Strappatemi i capelli



Mozzatemi gli arti



Ma lasciatemi l’amore



Preferirei aver perduto le gambe



Che mi avessero strappato via i denti



Cavato gli occhi



Piuttosto che aver perduto l’amore






Per realizzare traguardi e ambizioni



Per superare le resistenze



Per difendermi



Per avere attenzioni



Per essere guardata e ascoltata



Per essere indipendente ed agire secondo i miei desideri



Per sfidare le convenzioni



Per evitare la vergogna



Per cancellare le umiliazioni subite con nuove azioni



Per mantenere il rispetto di me stessa



Per superare la debolezza



Per essere accettata



Per ridere e fare scherzi



Per saper accettare e rimanere fedele all’Altro



Per essere nutrita, aiutata, protetta, coccolata, consolata, sostenuta, curata o guarita



Per nutrire, aiutare, proteggere, coccolare, consolare, sostenere, curare o guarire






Per essere perdonata



Per essere amata



Per essere libera.



(Sarah Kane)
 (ilaria antoniani)

sabato 21 maggio 2011

Mille splendidi soli




Il processo di Mariam si era tenuto la settimana prima. Non c'era stata pubblica udienza, né avvocato difensore, né possibilità di controinterrogare i testimoni, né di fare appello. L'intera procedura era durata meno di un quarto d'ora. Dei tre giudici quello nel mezzo era il leader. Era sorprendentemente scarno, con la pelle gialla, coriacea, e una barba rossa ricciuta. Aveva un collo così sottile che sembrava non poter reggere il grosso turbante avvolto attorno alla testa con intricati viluppi.

«Confessi, hamshira?» - le aveva chiesto di nuovo con voce stanca.

«» - aveva risposto Mariam.

L'uomo aveva annuito. O forse no. Era difficile a dirsi. Quando parlava, nelle sue parole c'era un non so che di scaltro e tenero allo stesso tempo. Aveva un sorriso paziente. Non la guardava con disprezzo. Non le si rivolgeva con arroganza accusatoria ma con un sommesso tono di scusa.

«Capisci fino in fondo quello che stai dicendo?» - le aveva chiesto il talebano dalla faccia ossuta alla destra del giudice. Era il più giovane dei tre. Parlava in fretta, con una sicurezza arrogante ed enfatica.

«Sì, capisco» - aveva detto Mariam.

«Dio ci ha fatto in modo diverso» - aveva spiegato il giovane - «voi donne e noi uomini. Il vostro cervello è diverso. Voi non siete in grado di pensare come noi. Medici occidentali l’hanno dimostrato scientificamente. Ecco perché richiediamo solo un testimone maschio ma due testimoni femmine».

«Confesso ciò che ho fatto, fratello» - aveva ripetuto Mariam - «ma se non l’avessi fatto lui l’avrebbe uccisa. La stava strangolando».

«Questo lo dici tu. Ma le donne giurano sempre su qualsiasi cosa».

«E’la verità».

«Hai dei testimoni oltre alla tua ambagh.

«No» - aveva risposto Mariam.

«Bene, allora». Aveva sollevato le mani in aria con un risolino sarcastico.

Poi aveva parlato il talebano dall'aria sofferente. «Non mi spaventa lasciare questa vita che il mio unico figlio ha lasciato cinque anni fa, questa vita che ci impone di sopportare dolore dopo dolore anche quando abbiamo superato ogni soglia di sopportazione. No. Penso che, quando verrà il momento, prenderò congedo di buon grado. Ciò che mi spaventa, hamshira, è il giorno in cui Dio mi convocherà e mi chiederà: 'Perché non hai obbedito alle mie leggi?'. Come lo spiegherò a Lui, hamshira? Come potrò difendermi dall'accusa di non aver seguito i suoi comandamenti? Tutto ciò che possiamo fare, tutto ciò che ciascuno di noi può fare nel tempo che ci è concesso, è attenersi alle leggi che Lui ci ha dato».

Si era sistemato, sollevandosi, sul cuscino, il viso contratto in una smorfia di dolore.

«Ti credo quando dici che tuo marito aveva un brutto carattere» - aveva ripreso fissando Mariam da dietro gli occhiali, con uno sguardo severo e compassionevole allo stesso tempo - «ma non posso che sentirmi turbato dal tuo gesto, hamshira. Sono stanco e sto per morire ma voglio essere misericordioso. Voglio perdonarti. Ma quando Dio mi chiamerà e mi dirà: 'Non spettava a te perdonare, Mullah', che cosa gli risponderò io?».

I suoi compagni avevano annuito, guardandolo con ammirazione.

«Qualcosa mi dice che tu non sei una donna malvagia, hamshira. Ma devi pagare per ciò che hai fatto. Affermo che è mio dovere mandarti dove presto ti raggiungerò io stesso. Capisci, hamshira.

Mariam aveva chinato lo sguardo sulle mani, dicendo che capiva.

«Che Allah ti perdoni».

Mariam rimase in prigione dieci giorni. Sedeva vicino alla finestra della cella e guardava le carcerate nel cortile. Quando soffiavano i venti estivi, seguiva con lo sguardo i pezzetti di carta che, trasportati dalle correnti, turbinavano in mulinelli impazziti. Guardava il vento che sollevava la polvere, convogliandola in violente spirali che mettevano sottosopra il cortile.

L'ultimo giorno che Mariam trascorse a Walayat, Naghma le offrì un mandarino. Glielo mise in mano e le chiuse le dita sopra il frutto. Poi scoppiò in lacrime. «Sei la migliore amica che abbia mai avuto» - disse. Mariam passò il resto della giornata accanto alla finestra con le sbarre, guardando le carcerate nel cortile. Una di loro stava cucinando e una folata di fumo e di aria calda profumata di cumino fluttuò attraverso la finestra. Due bambine cantavano una filastrocca che Mariam ricordava dall'infanzia.

Mentre veniva condotta allo stadio Ghazi, Mariam sobbalzava nel cassone del camioncino che sterzava all'improvviso per evitare le buche, mentre le ruote facevano schizzare sassi in tutte le direzioni. Quegli scossoni le facevano male all'osso sacro. Di fronte a lei sedeva un giovane talebano armato, che la osservava. Mariam si chiedeva se sarebbe toccato a lui, a quel giovane gentile, con gli occhi infossati e il viso leggermente appuntito.

«Hai fame, madre?» - le chiese.

Mariam scosse il capo.

«Ho un biscotto. E’ buono. Te lo dò se hai fame. Mi fa piacere».

«No. Tashakor, fratello».

Annuì e lo guardò con benevolenza.

«Hai paura?».

Un nodo le strinse la gola. Con voce tremante Mariam gli disse la verità. «Sì. Ho molta paura».

Per la prima volta, quel giorno, Mariam versò qualche lacrima.

Migliaia di occhi si posarono su di lei. Sulle gradinate gremite, la folla allungava il collo per vedere meglio. Alcuni pregavano. Altri facevano schioccare la lingua. Quando Mariam scese dal camioncino, un lungo mormorio trascorse per lo stadio. A Mariam parve di vedere gli spettatori scuotere la testa quando l'altoparlante annunciò il crimine per cui veniva condannata. Ma non alzò gli occhi per verificare se la scuotevano con disapprovazione o con misercordia, con biasimo o con clemenza. Mariam non volle vedere nulla.

Nel corso della mattinata era stata presa dal timore di rendersi ridicola, di mostrarsi lacrimevole e implorante. Aveva temuto che avrebbe gridato o vomitato o che, addirittura, si sarebbe bagnata; che negli ultimi momenti sarebbe stata tradita da un istinto animale di sopravvivenza o dalla misera del corpo. Ma, quando la fecero scendere dal camioncino, le sue gambe non cedettero. Le sue braccia non frustarono l'aria. Non dovettero trascinarla.

Si avvicinò un uomo armato che le ordinò di andare verso il palo sud della porta. Mariam sentiva che la folla si eccitava pregustando lo spettacolo. Non alzò lo sguardo. Tenne gli occhi fissi a terra, sulla propria ombra, e sull'ombra del boia che seguiva la sua.

Mariam sapeva che la vita non era stata buona con lei, anche se le aveva concesso alcuni momenti di bellezza. Ma mentre percorreva gli ultimi venti passi, non poté fare a meno di desiderare di vivere ancora. La addolorava non veder crescere Aziza, non vedere la bella donna che un giorno sarebbe diventata, non poterle dipingere le mani di henna e lanciare dolci di noqul al suo matrimonio. Non avrebbe mai giocato con i figli di Aziza. Le sarebbe piaciuto così tanto diventare vecchia e giocare con i figli di Aziza.

Quando fu vicino al palo della porta, l'uomo dietro di lei le ordinò di fermarsi. Mariam obbedì. Attraverso la griglia del burqa vide l'ombra delle braccia dell'uomo alzare l'ombra del suo kalashnikov.

Questi furono i desideri di Mariam in quei suoi ultimi momenti. Tuttavia, quando chiuse gli occhi, non fu invasa dal rimpianto ma piuttosto da una sensazione di grande pace. Pensò al suo ingresso in questo paese, figlia harami di una povera ragazza di paese, una cosa indesiderata, un malaugurato, increscioso incidente, un'erbaccia. Eppure lo lasciava dopo essere stata un'amica, una compagna, una donna che si era presa cura degli altri. Una madre. Una persona di valore, finalmente.

«Inginocchiati, hamshira. E guarda a terra».

Per l'ultima volta, Mariam fece come le veniva ordinato.


(Tratto da: 'Mille splendidi soli' di Hosseini Khaled)

 (ilaria antoniani)

L'equazione

  
L'EQUAZIONE


E quando fuori dalla tua finestra il cielo si fa più grigio...
e quando dentro ai tuoi pensieri si insinua un senso di amarezza...
e quando avverti una crescente mancanza di energia...
e quando ti senti profondamente solo...
ecco, quello è il giorno dell'appuntamento col bilancio della tua vita.

Generalmente non è un bel giorno.

E non tanto perché il cielo si fa un po' più grigio... quanto perché tu ti fai un po' più schifo.
Dunque: il lavoro. Beh, il lavoro… non manca.
Voglio dire: c'è anche chi ce l'ha. Ma, in genere, non gode.
Impegno sociale, morale, civile… mi viene da ridere.
La salute, finché uno ce l'ha non ci pensa.
Non resta che l'amore, la sfera degli affetti, dei sentimenti, che forse dentro è la cosa che conta di più, e poi - quella almeno - ce la scegliamo da noi! ... ... ... Un disastro.

Ma se si fallisce sempre, ci sarà una ragione. Dov'è che si sbaglia, eh? Colpa mia... colpa tua... No, io a quelle cose lì non ci credo. L'errore dev'essere 'prima'. Non una cosa recente. Probabilmente da bambino: un errore che ha influenzato tutta la nostra vita affettiva. Chi lo sa, forse il famoso Edipo, forse 'mamma ce n'è una sola'. (Anche troppa). Oppure nonni, zii, fratelli... insomma, figure, fotografie dell'infanzia che rimangono dentro di noi per tutta la vita.
Sì, un errorino, certo, impercettibile, che poi col tempo si è ripetuto, moltiplicato, ingigantito, fino a diventare gravissimo, irreparabile.

Già, ma perché l'errore si ingigantisce?

Dev'essere un po' come quando a scuola facevamo le equazioni algebriche. Cioè, tu fai uno sbaglietto, una svista, un più o un meno, chi lo sa... È che poi te lo porti dietro! E nella riga sotto cominci già a vedere degli strani numeri. E dici: va beh, tanto poi si semplifica. E poi numeri sempre più brutti, più grossi, sgraziati anche. Addirittura enormi, incontenibili, schifosi.

E alla fine:
x = 472.827.324 fratto radice quadrata di 87.225.035 + c

... E ora prova un po' a semplificare!

Non c'è niente da fare. La matematica deve avere una sua estetica: x = 2. Bello! La semplicità.

Forse, per fare bene un'equazione è sufficiente avere delle buone basi. Ma per fare una storia d'amore vera e duratura è necessario essere capaci di scrostare quella vernice indelebile con cui abbiamo dipinto i nostri sentimenti.

(Giorgio Gaber)
 (ilaria antoniani)